Sbarcato su Netflix e balzato alle cronache per la pubblicizzata love story osteggiata ma politicamente corretta, erotica ma all’interno di un grottesco moralismo, il teen period drama Bridgerton (Chris Van Dusen, 2020-) sembra definitivamente consacrare l’opera di Shonda Rhimes a un’ipocrisia inclusiva in cui tutti sognano una vita usa e getta e, a parità di diritti e doveri, ognuno è pronto a consumare e consumarsi come un fast food. A tal proposito non mi è completamente chiaro se un siffatto allestimento sia drammaticamente – ossia rispetto alla qualità della narrazione – desolante, o piuttosto – rispetto all’attualità – brillantemente critico. O ancora, molto più banalmente, se Shonda ci faccia o ci sia…
Basato sulla serie di romanzi rosa di Julia Quinn, Bridgerton presenta, in un’ucronica Inghilterra della Regency, le vicissitudini di alcune famiglie intenzionate a emergere sotto lo sguardo volubile e annoiato della Regina Charlotte e quello lucido e spietato dell’anonima gossip columnist Lady Whistledown (sragione e risentimento). A fare da perno la liaison (più che tormentata, capricciosa) tra la debuttante Daphne Bridgerton (Phoebe Dynevor) e il duca Simon Basset (Regé-Jean Page) che in otto spediti episodi passano dall’essere legati da un cinico accordo a una passione tenuta viva dal coitus interruptus.
Sebbene il canovaccio di Bridgerton sia conforme agli standard del romanticismo e del dramma sociale della produzione in costume – la quota gradevole del prodotto – il lavoro di ammodernamento investe malamente sulle “superfici” – l’aspetto dei personaggi, la riqualificazione dei rapporti tra bianchi e neri, l’accompagnamento musicale – senza mai entrare nel merito della diversity e promuovendo perlopiù un’omologazione scoraggiante.
L’impressione è che le relazioni, una volta potenzialmente “pericolose”, siano diventate pretestuose, una trovata per occuparsi di “quel che ne pensa la gente”, per alimentare il chiacchiericcio, proprio come i titoli che scorrono sui newsfeed dei vari social network. D’altra parte non è forse questa la funzione della voce narrante/protagonista fantasmatica che incalza i giudizi e i pregiudizi morali del pubblico dentro e fuori lo schermo? Perché se è vero che in Gossip Girl (Josh Schwartz, 2007-2012) l’espediente veniva sfruttato per generare dinamiche narrative, grazie al valore strumentale dell’informazione – che cambiava in base a chi, come e quando veniva diffusa – in Bridgerton la funzione è ridotta a puro e semplice pettegolezzo, in grado di produrre solo una moltitudine di commenti uguali e contrari.
Pertanto la fantasiosa integrazione razziale alla corte di Re Giorgio III, dove peraltro continuano a sussistere gli squilibri di classe e le consuetudini di genere, resta solo una premessa che oltre a non essere spiegata a dovere, viene presentata come una necessità – politica e non narrativa – di cui nemmeno si vuol fare virtù.
Persino l’aspetto sessuale, che a un certo punto della storia sembra ricoprire un ruolo tutt’altro che marginale, viene affrontato come l’ennesima variazione pseudo-trasgressiva di Cinquanta sfumature di grigio (Sam Taylor-Johnson, 2015) in cui una pantomima soft porno intensiva si sostituisce al semplice desiderio di ricevere e dare piacere mentre ci si “scopre”.
Insomma, Bridgerton è quel prodotto un po’ romantico e un po’ zozzo che, senza particolari pretese, intende conquistare quelli che ieri avrebbero amato un Harmony ma che oggi non hanno tempo o interesse per la lettura…
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